I palmenti nel territorio di Montelanico dal periodo romano al XX secolo

I palmenti  nel territorio di Montelanico dal periodo romano  al XX secolo


Pubblichiamo uno dei numerosi contributi che ci sono pervenuti dopo l'invito a partecipare all’indagine sulla riscoperta dei palmenti italiani (I palmenti: chi li ha visti?") rivolto dall'Associazione Nazionale Città del Vino a istituzioni, amministrazioni locali, associazioni e cittadini.

Nel territorio di Montelanico (Rm), lungo il percorso dalla Valle del Rio al Castrum Metellanici, è sempre l’attività rurale caratterizzata da una economia del grano, dell’olio e del vino che si manifesta con importanti e significative testimonianze. Esse sono rappresentate dai resti di impianti produttivi per l’olio e il vino, dal periodo romano al medievale per concludersi nel XX secolo, differenziate solo dal periodo storico a cui sono appartenute. La produzione complessiva di questa economia superava di poco il fabbisogno interno e le eccedenze erano scambiate con prodotti artigianali di uso quotidiano.

Il vino prodotto, in modo particolare il bianco, lo abbiamo chiamato vino da dialogo perché favoriva una spontanea disponibilità al parlare e ascoltare, almeno fino al secondo litro, superato il quale la stanchezza di un duro lavoro nei campi richiamava il sonno. Il vino bianco da dialogo non ubriacava, assopiva, non istigava alla rissa ma metteva buon umore; a conferirgli questa straordinaria caratteristica, oltre alla indiscussa genuinità, era la gradazione alcolica di circa 10÷11 gradi.

Il periodo d’oro di questa produzione vinicola ha inizio con l’affermarsi della Rivoluzione Agricola del XVIII secolo e termina con il “Miracolo economico italiano” dei primi anni sessanta del XX secolo. La serata per i contadini di Montelanico era molto importante e veniva trascorsa nei vicoli e nelle apposite piazzette, nate all’interno del borgo medievale proprio per favorire la socializzazione e quindi i rapporti di buon vicinato. Dopo essersi scambiate opinioni, esperienze e tutto ciò che suggerisce il valore inestimabile della solidarietà, queste umili persone rientravano nella propria casa con evidente soddisfazione per effetto del vino; dopo pochi minuti calava il silenzio e successivamente iniziava un russare incontrollato del quale erano testimoni solo le pazienti ed equilibrate mogli, alle quali il fenomeno dava tranquillità e certezza, la certezza che il loro compagno di vita non si dedicava alle predazioni notturne, la sola causa che turbava la pacifica convivenza della comunità.

Questo aspetto di vita rurale ci proviene da una testimonianza orale, vecchia di almeno due secoli. Con la memoria di chi scrive, e i ricordi di anziani contadini è stato possibile stilare due elenchi, uno relativo alle uve più in uso per il vino bianco da dialogo e il nero da cerimonia, e l’altro per le olive da olio. I due elenchi non tengono conto delle varietà di vitigni e ulivi introdotti dopo gli anni cinquanta.

- Uve bianche: pampanara, cinciara (forse l’unciara romana), zinnavacca, cacchione, panse precoce, moscato di terracina.

- Uve rosse: restone (forse olivella nera), aleatico, moscatello, magliocco, lacrima christi.

- Olive: cicerone, morella, livella (forse la olivetta catalogata da Giovanni Presta), rosciola (resciola o sergia).

C'era inoltre un’uva bianca ritenuta selvatica, dai grappoli così grandi, circa 60 cm, da valere la pena di arrampicarsi all’albero che la sosteneva. Questa uva, forse una sopravvivenza della famosa “tripedania”, è stata raccolta fino agli anni 60 del secolo scorso in località Colle Moschitto, nelle cui vicinanze è stato rinvenuto un pozzetto intonacato, sicuramente un palmento, selvaggiamente spicconato.

L’uvaggio del vino da dialogo si componeva di pampanara, cinciara, zinnavacca, cacchione, panse precoce. Per il nero da cerimonia si utilizzavano tutte le uve rosse con l’aggiunta di una minima parte di moscato di terracina, che gli conferiva un particolare profumo. Il nero da cerimonia veniva prodotto per essere bevuto solo in particolari circostanze: cresime, comunioni, matrimoni. I vitigni del rosso rispetto al bianco erano in ragione di uno a dieci, pertanto occorrevano più annate per fare una scorta di cinquanta cento litri.

L’olio, questo prezioso condimento, era verde e profumato, la quantità pro capite era modesta, ma orgogliosamente si faceva notare che era stato estratto principalmente da olive ciceroni, una varietà di oliva che, come mostra la foto, si avvicina moltissimo alla pasola tonda e il cui nome, perpetuato fino ai nostri giorni, altro non è che l’antroponimo del giurista romano Marco Tullio Cicerone, come la licinia di puglia prende il nome da Sesto Licinio Prisco (a Venafro, sostiene Giovanni Presta, viene chiamata aurina).

Il bilanciere della laboriosa vita degli uomini, naturalmente, erano le donne dalle quali dipendeva l’economia domestica della casa, e prima della diffusione dei mulini alimentati ad energia elettrica, alle donne spettava anche la molitura dei cereali per ricavarne farina. Ma anche loro avevano il loro momento di svago, nel pomeriggio, quando di solito si lavorava a maglia. Si faceva ogni genere di indumento, ma non era considerato lavoro, bensì un passatempo che dava l’occasione per un garbato e sano chiacchiericcio.

Le immagini in allegato sono una panoramica dei mezzi d’opera che scandiscono il periodo a cui facciamo riferimento e che sono stati rinvenuti nei territori che nel medioevo furono del castello di Montelongo e del castello di Montelanico, mentre l’economia del castello di Collemezzo fu prevalentemente silvo-pastorale. (Alessandro Ippoliti, Direttore del Gruppo Archeologico Ecetrano, www.ippolitialessandro.it).