Elogio della "mappetella"

Elogio della


 

di VINCENZO COLI

 

 

Sembra fatto apposta per mettere tutti d'accordo il tema portante dell'Expo di Milano: nutrire il pianeta, garantire alimenti a chi non ne ha (circa 870 milioni di persone denutrite nel biennio 2010-2012), finirla con sprechi mostruosi (1,3 miliardi di tonnellate di cibo rimangono inutilizzate ogni anno), portare a maturazione scelte politiche consapevoli, stili di vita sostenibili e, anche attraverso l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia, trovare un equilibrio tra disponibilità e consumo delle risorse. Un macroproblema da far tremare i polsi. Nella loro semplicità, una microsoluzione l'avevano già trovata le nostre nonne del sud, molto prima che nascessero le discipline scientifiche sull'ambiente e che l'alimentazione venisse considerata qualcosa più di un bisogno primario dell'uomo.

 

 

Nella società contadina, povera e aspra ma sostanzialmente solidale, dove mettere insieme il pranzo con la cena era un'impresa, le riunioni conviviali importanti erano legate a cerimonie che coniugavano pratiche religiose e socialità: comunioni, matrimoni e battesimi, tutte occasioni per imbandire pietanze ricche e inarrivabili il resto dell'anno. Terminavano con un gesto premuroso della padrona di casa: la confezione e la distribuzione agli ospiti della cosiddetta mappetella, l'involto di panno che raccoglieva salvandolo dal secchio gli avanzi del desinare rimasti in cucina, carne, pane, verdura, frutta, dolci, e li destinava alla consumazione nei giorni a venire, oppure alle tavole sguarnite delle famiglie bisognose. Un atto intelligente, generoso e risparmioso.

 

 

Con l'affermarsi della cultura borghese, un pensiero così delicato ha perso il diritto di cittadinanza. Lo spreco, anche a tavola, è divenuto affermazione di status sociale: avere tanta roba e potersi permettere di buttarne via una parte indicava totale indifferenza al costo economico del cibo, era quindi il segno di un'assoluta, oltraggiosa ricchezza. Di più: le buone regole del galateo raccomandavano di lasciare sempre nel piatto una piccola porzione, per non dare l'impressione di un appetito inelegante e fuori luogo, non adombrare in sostanza il sentore della fame, problema da poveracci. Tutto questo è accaduto in quasi tutta Europa, specialmente in Inghilterra e Francia. Non accadeva negli Stati Uniti, dove ha sempre prevalso una cultura del consumo molto utilitaristica e niente affatto snob. Non accadeva in Giappone dove ogni atto è al servizio del senso estetico, e qualche maccherone al sugo abbandonato al suo destino spezzerebbe l'equilibrio di una composizione. Non accadeva in Cina dove la miseria è ancora un ricordo atavico.

 

 

Oggi il cambio di orientamento è vistoso, e va salutato con soddisfazione. Comprare cibo e generi voluttuari è ancora, per tanti, un piacere compulsivo, ma oscurato da un sottile senso di colpa. Mentre tante multinazionali food imbarcano le eccedenze verso i paesi poveri e in guerra, l'acquirente medio fa più attenzione, rispetto al passato, a cosa e a quanto comprare, lo testimoniano gli studi di settore. Colpa della crisi, se nei supermercati gli scaffali della merce vicina alla scadenza, pasta, yogurth, latte e insaccati, vengono vuotati in un attimo. Ma il fenomeno lo si può ancora interpretare come effetto di una consapevolezza matura, che le risorse non sono infinite e ci dovrà pur essere il modo di redistribuirle più equamente. Preoccupa invece - l'allarme è della Coldiretti - l'uso invalso e assai pericoloso per la salute di nutrirsi con alimenti abbondantemente scaduti. Lo fanno sei italiani su dieci, costretti dal bisogno più che ispirati da una micragna patologica. In ogni caso la tendenza è chiara: non si butta via niente, tra gli incapienti e tra chi potrebbe scialare. In molti ristoranti, europei e americani, soprattutto se di lusso, il cliente al momento del conto viene omaggiato di elegante cartoccio griffato, per raccogliere e portare a casa i resti della cena. Le nonne hanno sempre ragione.